Forse che mi contraddico?
- marialuisaconserva
- 9 lug 2015
- Tempo di lettura: 4 min

Walt Withman scrisse: Forse che mi contraddico? | Benissimo, allora vuol dire che mi contraddico, io sono vasto, contengo moltitudini. Un po' come il dilemma iniziale, se essere psichiatra o paziente.
Fu la frase di Withman a farmi concepire per la prima volta la mia visione dell'essere umano con tante anime.... Ma in fondo, pensavo, basta non usare gli aggettivi. Gli aggettivi, i nomi, i ruoli; sono quelli che ti fregano, tutto ciò che definisce, che limita, che ingabbia, che pietrifica indurisce e corrode il magma informe e bollente di cui è fatto lo spirito di ogni essere umano, rendendo le anime atrofizzate.
Così decisi che i ruoli non mi piacevano e che avrei vissuto senza. Era possibile? All'epoca non avevo risposte, ma me ne accorsi col tempo a cosa si poteva andare incontro a vivere quella che io pensavo essere un' estrema libertà.
Ho iniziato a pensare alla parola identità senza sapere l'importanza che avrebbe avuto nella mia vita, un giorno dopo aver chiesto alla mia psichiatra come avrebbe definito il mio problema se avesse dovuto spiegarlo in pochi termini in una telefonata ad un dottore americano e quindi dovendosi far capire. Un modo simpatico per chiederle di fare una diagnosi. Mi ha risposto che ho un disturbo dell'identità e del sé. E da quel momento non ho mai smesso di chiedermi cosa significhi questo termine, cosa vuol dire veramente identità, cos'è l'identità. E mi sono accorta che non lo sapevo perché io non ne avevo una definita. Dentro di me c'erano pezzi di passato di presente senza un unità, c'erano idee frammentate, non c'era niente di solido, c'erano fantasmi, caos, paure, rabbia repressa, sintomi di un disagio che si vedeva anche fuori, le mie azioni non avevano una vera e propria intenzionalità, il mio agire mancava di un filo logico, e così anche la mia persona, ero fatta a pezzi, facilmente trasportabili da una corrente di vento anche lieve, pezzi senza tempo senza data senza nome senza sesso. Ero disintegrata.
E capendo tutto ciò che io non ero, sono riuscita piano piano a fare mio il concetto di identità e ho provato ad applicarlo a me stessa, a quei pezzi di carne e anima, ho provato a incollarli e ho cercato il modo di tenerli uniti, e per lo meno ho cercato di capire cosa li sgretolasse e impedisse loro di formare un Io forte, un io identico a se stesso e consapevole di essere tale.
L'identità presuppone tre cose secondo me: una conoscenza di sé profonda, una temporalità di sé ovvero una visione di sé nel futuro (quella che Heidegger chiamerebbe progettualità), e un minimo di amor proprio, forse quest'ultimo è la base anche delle due precedenti. Io non ne avevo nessuna di queste tre cose. La psicoterapia mi ha aiutato ad acquisirle. Sono andata da due psichiatri e da una psicologa in questa breve vita. Mi aiutarono a formare i mattoncini che la corrente non può portare via. L'identità è fatta di mattoncini che nessuno e niente può distruggere. I mattoncini sono come anime, tante anime che io mi immagino come degli esserini colorati, fantasmini, di cui siamo fatti e ognuno dei quali reclama vita. L'identità è il senso di sé e ancor meglio la consapevolezza di avere un senso di sé. Identità è una di quelle parole di cui comprendi il significato solo una volta che i suoi attributi sono anche i tuoi, solo quando la possiedi. L'identità si possiede? Sì, si possiede, nel senso che se ci pensate non è così facile descrivere se stessi, ma anche sentire se stessi senza per forza descriverci a parole, sentire l'essenza più profonda, le motivazioni più profonde dell'agire, le basi della nostra personalità, le basi dei nostri atteggiamenti, sentire l'Io sballottato tra il sé e il super-Io e comunicare con esso. Parlarsi e ascoltarsi sono prerogative di gente con un'identità. Non è scontato. Nel dizionario identità è così definita: coincidenza tra due elementi. Quali sono questi elementi nel caso dell'identità di cui stiamo parlando noi, cioè riferendoci all'ambito psicologico? Si tratta della coincidenza dell'Io con se stesso. La coincidenza dell'Io che è e dell'Io percepito dall'Io stesso. Intendo dire che possiamo percepire il mondo e gli altri in modi diversi da quello che sono, ovviamente, ma il nostro Io è uguale a se stesso e noi per avere un identità che sia degna di essere chiamata tale dobbiamo sapere com'è il nostro Io e quindi percepirlo per come è realmente, altrimenti abbiamo un disturbo dell'identità.
Sempre nel dizionario, la parola identità in senso “figurato”, è così definita: consapevolezza da parte dell’individuo di un senso di Sé costante e continuo nel tempo e anche del riconoscimento da parte degli altri di queste qualità del sé dell'individuo (Erikson).
Io molti dei miei mattoncini-fantasmini-anime li lasciai lungo il mio percorso dopo averli fatti a pezzi ed averli resi atrofizzati e immobili così da non poter più essere contenuti dentro di me. E là se ne stanno ancora; si trattava allora di andare a cercarli. Ma questo mio compito non era così scontato all'inizio. I piani si confondevano.
A tratti la vita mi sembrava senza senso e a tratti un meraviglioso dono. Winnicott sentiva che all’interno di ognuno c’era qualcosa di simile, che lui paragonava a un tulipano: un’identità unica e autonoma, inaccessibile alla consapevolezza, protetta da interventi o interferenze nei modi più comuni, e pensava che uno dei compiti della psicoanalisi fosse mantenere il terreno sgombro da tali interferenze..
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