top of page

kuffjica cozma, genova, menesini & moldovan gallery

Il Caos vorticoso della Cosa

testo di Maria Luisa Conserva

​

Da quando nasciamo siamo tutti quanti esseri tramortiti dal Linguaggio. Il soggetto, come afferma Lacan, è il prodotto della cesoiata del Linguaggio, ma è anche allo stesso tempo ciò che resta da questa operazione di taglio[1]. Che cosa significa? Che Il Linguaggio, luogo del simbolico per eccellenza, non ci parla della singolarità irriducibile di ogni soggetto, ma inserisce il soggetto in un sistema a lui preesistente, fatto di lettere e parole e regole e tradizioni che tagliano e delimitano e circoscrivono quell'infinità che è ogni anima al cospetto di sé stessa, come recita una poesia di Emily Dickinson, rendendo questa infinità finita. 

Allo stesso modo il Linguaggio non ci parla nemmeno del Reale né del caos vorticoso della Cosa. 

Per Reale, intendo, rifacendomi a Lacan, tutto ciò che è coperto dal velo della realtà che noi tutti viviamo ogni giorno. Il Reale è il luogo dei misteri del sesso e della morte e del desiderio incolmabile. 

Per parlare de La Cosa cito Marie Cardinal, che, in un suo famoso e fortunato libro, Le parole per dirlo, in cui racconta della sua psicoanalisi, parla della sua angoscia chiamandola La Cosa. Non credo sia un caso se anche Lacan chiami La Cosa proprio quel godimento primordiale ed eccessivo che tutti noi abbiamo perduto per via del Linguaggio.  La Cosa è tutto ciò che non si può dire, ciò di fronte a cui il pensiero umano si blocca, ciò che l’arte classica ha sempre cercato di allontanare dando forma alla perfezione, e ciò che l’arte contemporanea più estrema (pensiamo alla body art, alle performance in cui il corpo dell’artista è tagliato e mutilato), invece, cerca inglobare senza rendersi conto del fatto che si tratta di un’operazione impossibile il cui risultato sarà evidentemente fallimentare. La Cosa è quell'infinità dell'anima che per forza, nella realtà, diventa finita. La Cosa è il godimento pieno ed infinito che il Linguaggio taglia e ci fa perdere alla nascita. La Cosa allora, proprio perché perduta e impossibile da raggiungere, e proprio perché comunque l'individuo continua a cercarla, assume il volto del terrificante, dello scabroso, dell'osceno, dell'angosciante, del Reale, tutte figure che non si possono cancellare né inglobare, come spiega bene Massimo Recalcati nel suo libro su Lacan del 2012, quando parla delle tre estetiche di Lacan[2].

La Cosa ad un certo punto bussa alla porta e ci fa visita, perché ogni uomo prima o poi se ne ricorda, ogni uomo si rende conto di essere un'infinità finita, ed in particolare La Cosa bussa alla porta di ogni artista che possa, secondo me, essere definito tale. 

Quando questo succede, ci sono artisti che riescono a difendersi dalla Cosa e a rappresentarla esteticamente senza farsi travolgere, che riescono in un certo senso a domarla, senza però diventare cultori dell’apollineo e del perfetto. Lacan, nel Seminario VII, cita Le Mele di Cezanne come esempio di opera in cui la Cosa è rappresentata, presentificata, ma allo stesso tempo domata, assente.  

Ci sono artisti, come Cozma, con una vita segnata da forti traumi e che scorre ai margini della società, a cui il Linguaggio ha dato una cesoiata ancora più profonda, e che non hanno questa capacità di difendersi e di domare la Cosa, che quindi appare molto più dirompente nell’opera. È l'opera stessa che fa sorgere il Reale come eccesso custodito nel cuore dell'opera. Guardando le opere di Cozma, la Cosa ci appare dinanzi come un vortice che risucchia, come un buco nero che attira tutto a sé senza via di scampo. È la Cosa che ci guarda e ci turba. È tutto quell'infinito senza contorni che l'artista e noi cerchiamo di contornare. I suoi di-segni sono come la sezione anatomica di pezzi di corpo ammassati l’uno sull’altro, un corpo letteralmente tagliato. Cozma ha subito da giovane un gravissimo incidente sul lavoro, che le ha sfigurato il viso e l’ha portata all’immobilità. Ci si potrebbe accostare alla sua arte anche a prescindere da tali eventi, ma essi ci consentono di comprendere come mai La Cosa sia così evidente nei suoi di-segni, quanto sia immensa la nostalgia che questa artista prova nei confronti della Cosa proprio per la maggiore distanza da cui ne è separata. Una distanza che, non potendosi colmare, si riversa sul soggetto e sul foglio di carta sotto la forma di un’angoscia Reale, palpabile. Più la distanza è grande e più l’angoscia sarà Reale.

Dunque la domanda è perché l'artista crea? Ne La nascita della tragedia Nietzsche affermava che la vita per sopportare sé stessa (per sopportare l’incontro con La Cosa perduta che torna a bussare, aggiungo io) ha bisogno dell’arte. Perché Cozma un giorno decide di prendere una penna nera e scarabocchiare un foglio? Perché invece di un semplice scarabocchio, quello che poi esce è qualcosa di completamente nuovo e inconsueto e inaspettato? Perché Cozma mentre scarabocchia nemmeno si rende conto che quello che è uscito dalle sue mani è qualcosa che qualcuno chiama Arte? O forse se ne rende conto. Forse mentre lo sta facendo lo percepisce che il risultato non sarà il foglietto che tutti hanno sotto mano appoggiato al comodino mentre sono al telefono… Io sono sicura che chi crea, mentre crea, percepisce che in quel momento si sta dedicando a qualche cosa che è più di un semplice passatempo, di un nevrotico bisogno di muovere la mano. L’artista percepisce, probabilmente non con la coscienza, che ciò che ha sottomano è qualcosa che deriva dall’incontro con La Cosa. Ma l’artista non si blocca dinnanzi a tale presenza né tenta di inglobarla. L’artista la costeggia e tenta di rappresentarla. Allora l’arte si configura come un Linguaggio Altro, un Linguaggio la cui cesoiata non inserisce l’uomo in un ordine simbolico e sociale, ma apre un varco sul Reale, proteggendo però dal caos che questo varco porterebbe con sé se non ci fosse l’arte.

Per cercare di rispondere a tutte queste domande ed ipotesi ho chiesto a Cozma perché lei crea e cosa vede nei suoi “disegni”. Mi ha risposto così: Quelli che tu chiami “disegni” sono i miei segni, sulla carta, scorrono senza rappresentare qualche cosa, ma soltanto per descrivere quello che nel momento che traccio queste linee, sento. Io non vedo nulla nei miei disegni, quando il segno ha finito di scorrere vedo la cosa finita, e questa cosa molto spesso mi rappresenta.

La sua risposta ha confermato le mie idee ma mi ha anche reso consapevole del fatto che niente però piove dal cielo all'improvviso, nemmeno le migliori intuizioni. C'è sempre un intenso lavorio di sottofondo, in ogni fenomeno, naturale, psicologico ed artistico. I risultati sono soltanto l'ultimo pezzo di un'infinita serie di processi invisibili, impercettibili, inconsci. Processi che prendono forma, nel caso di Cozma, solo in quei suoi segni, che ci parlano di sofferenza, di traumi subiti, di dolore, di solitudine, di necessità di riempire un vuoto, del corpo di una donna mutilato dalla vita. Questo corpo non ci è posto dinnanzi nudo crudo e sanguinante (il che porterebbe alla distruzione di ogni sentimento estetico), ma lo si vede lo stesso, ed anzi proprio per questo motivo lo si vede ancora meglio. Linee nere spesse e profonde e spirali di parole di cui non conosco il significato, cercano di dare un contorno a qualcosa che un contorno non ha. Sono evidenti le forme che richiamano i genitali femminili, anch’essi intrappolati tra spirali, linee ed altre forme dai contorni curvi, morbidi, tondeggianti… forme femminili. Una femminilità fatta a pezzi.

Sembra impossibile che si possa rappresentare un Reale così spigoloso con delle forme così morbide, eppure Cozma ci riesce, ed è forse l’unico modo che ha per poterla sopportare quella spigolosità. 

 

 

 

[1] Lacan, Seminario XI, pp. 207-233

[2] Massimo Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, pp. 551-622, Raffaello Cortina Editore 2012

​

​

​

In collaborazione con 

Daria Moldovan, global manager HIGHLIGHTS ARTE

Alessio Menesini, gallerista

​

BIOGRAFIA ARTISTA

Kuffjca Cozma nasce nel 1962, a Tiraspol, enclave russo nella Repubblica di Moldavia. La madre è di origini romene, viveva stabilmente a Tiraspol, il padre biologico è stato un maggiore dell’esercito russo.

Completa gli studi a 16 anni, la condizione di vera povertà la costringe a lavorare, trova un'occupazione come controllore di biglietti nelle ferrovie dello stato Moldavo, viaggia spesso, ma sempre sulla stessa tratta Tiraspol-ChiÅŸinău, tra una fermata e l’altra inizia a tracciare delle linee su fogli di riciclo che poi regolarmente buttava via. Nel 1985, a 23 anni, ha un gravissimo incidente cadendo dal treno che le provoca una profonda cicatrice sul viso e la perdita di moto della gamba sinistra, incidente che la porta ad una invalidità quasi totale e da quel momento, si dedica al disegno come mezzo per sublimare il trauma subito. Da allora vive in un monolocale in case popolari, mantenendosi, a stento, con la pensione d’invalidità. 

© 2023 by Sasha Blake. Proudly created with Wix.com

bottom of page